Fra le querce e i castagni di un luogo imprecisato e delizioso si apre, come un’oltraggiosa ferita, uno spiazzo asfaltato chiuso da un edificio di cemento, «orridamente bucato da finestre strette e oblunghe». Un albergo? Un eremo? Testimone casuale – ma che sempre meno crede nel caso –, un pittore di fama si troverà a osservare, per pochi, terribili giorni, ciò che avviene in quel luogo. «Esercizi spirituali», gli viene detto. Quegli esercizi che Ignazio di Loyola prescriveva di praticare todo modo, «al fine di cercare e trovare la volontà divina». Qui, attirati dal richiamo e dall’imperio di don Gaetano, uomo di cui nessuno sa scorgere il fondo e che Sciascia delinea magistralmente, convergono personaggi in diverso grado potenti, i quali presto si dispongono a recitare il rosario in compatto quadrato, producendo lo schianto di un coro «atterrito e isterico». Ciò che perseguono non è la volontà divina, ma il delitto, un’altra via dove «non ci si può fermare». Se dovessimo indicare una forma romanzesca capace di rivelare come si compone e come si manifesta quell’impasto vischioso del potere che la politica italiana ha avuto per lunghi anni il funesto privilegio di produrre, basterebbe rimandare alle asciutte pagine di Todo modo , alla scansione crudele dei suoi episodi, che solcano come una traccia fosforescente una materia informe, torbida e sinistra, quale nessun altro romanziere italiano aveva saputo affrontare. Non meraviglia dunque che questo libro, pubblicato nel 1974, possa essere letto come una guida alla storia italiana dei venti anni successivi.